Antonio Gadaleta
21 set 2025

Antonio Gadaleta

In ricordo di Antonio Gadaleta, un salveminiano scomodo

di Gino Tedesco

Test

In ricordo di Antonio Gadaleta

Nel mettere a fuoco le nostre matrici culturali rintracciamo persone di cui sentiamo di portare qualche eredità,
quasi dei “padri simbolici”.
“Questa eredità non è tanto e solo nelle teorie e nei concetti, ma è un nucleo di vita intellettuale che pulsa e parla oltre le distanze di tempo, spazio e culture”(1). Quei padri e quelle eredità ti frullano in testa per anni e non entrano mai nella tua agenda quotidiana.
Poi, è una discussione, una sollecitazione, come in questo caso dell’amica Fiorenza Minervini, a dar loro una concretezza.
Così è stato per queste parole su Antonio Gadaleta. Ho conosciuto Antonio nel 1972, era un padre reale perché padre di Stefano, Caterina, Giulia, Enrico, Emilio e Colette,
quasi tutti amici e compagni di militanza politica; un padre simbolico perché la sua accoglienza e bonarietà lo rendeva
un padre desiderabile per tutti noi. Frequentavo le sue abitazioni: la villa alla madonna delle rose, la casa al lungo mare, la villa a piscina rossa, lo studio in via Amedeo,
luoghi che erano un crocevia di relazioni ed emozioni, sempre aperte a qualcuno o a qualcosa. Mi è capitato di incontrare Notis Mavroudis e Vaso Dakouri,
musicisti greci scappati dai colonnelli che per circa un anno furono suoi ospiti, di ascoltare le prime canzoni di Enzo Jannacci o di Ivan della Mea,
conosciuti 20 anni dopo a Milano. Non credo però di aver scambiato molte parole con lui nel primo periodo.
Quell’uomo, medico condotto della città, a me adolescente, metteva soggezione. Fu una sfortunata circostanza a farmi sentire la sua vicinanza:
ero andato in vespa alla villa di piscina rossa a discutere con Elio che abitava presso di lui, della preparazione di qualche materiale di
formazione politica per i militanti di Lotta Continua, al momento di tornare in città mi accorsi che mi avevano rubato la vespa.
Antonio si avvicinò quasi per consolarmi e tentò subito di sdrammatizzare come era nel suo costume, infatti ridemmo alla sua battuta
“qualche proletario aveva bisogno della vespa o dei soldi che ci ricaverà vendendola”. La discussione portò alla preparazione di un opuscolo curato proprio da Antonio dal titolo “note di economia marxista” testo di riferimento:
trattato marxista di economia di E. Mandel, Ed. Samonà e Savelli.
Nel discutere mi sorprese la sua capacità di centrare i nuclei principali della teoria, quasi a spogliarla dell’ortodossia o dei superamenti avvenuti,
la sua attitudine alla divulgazione, all’esposizione comprensibile a tutti. Percepii chiaramente che quelle capacità dovevano essere
frutto di un bagaglio politico e di un’esperienza non comune.
Chi era, allora, Antonio Gadaleta di cui parlo e del quale forse molti non conoscono neanche il nome.
Antonio nacque a Molfetta il 04/01/1915 da famiglia proletaria: il padre, Domenico, era un marinaio semplice che trascorreva anche periodi lunghi lontano da casa, la madre, Caterina Pappagallo, figlia di semplici contadini, fu la figura di riferimento, soprannominata “la turca” a causa del suo carattere estremamente determinato e il suo pensare fuori dagli schemi. Antonio aveva tre sorelle. Lui era il secondogenito. Malgrado i non pochi problemi economici, la mamma cercò in tutti i modi di assecondare i suoi desideri ed inclinazioni: da bambino gli diede la possibilità di studiare il violino; provvide ad acquistargli gli occhiali quando l’insegnante le segnalò i problemi di vista di Antonio (in quei tempi solo i figli di famiglie benestanti usavano gli occhiali!); coraggiosamente decise di fargli proseguire gli studi, iscrivendolo al ginnasio prima, al classico dopo. Già dagli anni del liceo Antonio accompagnò i suoi studi ad un impegno politico e sociale profondo: giovanissimo, insieme ad altri, la maggior parte lavoratori, fondò presso il vecchio Duomo, guidato dal parroco don Mauro Pisani, un circolo nel quale gli studenti impartivano ai lavoratori lezioni di lingua straniera, matematica e scienze naturali. L’esperienza estremamente nuova nel panorama molfettese si configurò come una coraggiosa iniziativa di studenti e lavoratori in un programma comune di apostolato.
Terminato il Liceo, poiché i suoi docenti, in primis il prof. Tommaso Fiore, lo esortavano ad iscriversi all’università, sua madre decise di emigrare con l’intera famiglia in America affidandolo alla zia materna, Silvia Pappagallo, pur di permettergli di raggiungere il suo sogno.
Antonio si iscrisse alla facoltà di Medicina a Roma. Durante gli anni universitari si ammalò gravemente (problemi respiratori con conseguenze asmatiche che lo hanno accompagnato per tutta la vita) e fu costretto a rientrare a Molfetta. Malgrado la perdita di quasi un anno di studi, riuscì a laurearsi senza uscire fuori corso nel 1939 e a prendere l’abilitazione nello stesso anno all’università di Pisa. La scelta di Pisa fu fatta dal prof. Nicola Pende, famoso endocrinologo con cui fece l’internato a Roma. Si laureò col molfettese Silvio De Candia, discepolo di Pende, discutendo una tesi sul diabete.
Le sirene della seconda guerra mondiale suonavano già in Europa e la nefasta decisione fascista del 10 giugno del ’40 portò l’Italia in guerra.
Antonio partì per la guerra come ufficiale medico di complemento assegnato al 6° Reggimento Artiglieria Isonzo di stanza sul fronte jugoslavo, teatro di battaglie durissime specie dopo il 6 aprile del 1941 quando la Jugoslavia venne invasa dalle forze dell’asse. Trascorse quasi due anni a Novo Mesto, città della Slovenia meridionale che diventò provincia sotto diretta amministrazione italiana. Tra l’altro fu medico personale – come diceva lui – “apperse a nu re” ovvero di Aimone, dinastia Savoia-Aosta, duca di Spoleto, designato re di Croazia nel 1941. Dopo l’armistizio e la disfatta delle truppe italiane in disordinata ritirata verso l’Italia, Antonio, in territorio jugoslavo, in una struttura abbandonata, sede dell’ONMI (opera nazionale per la maternità e l’infanzia), mise su un ospedale di fortuna autonomo dove curò tutti, italiani e jugoslavi, attirandosi non poche minacce delle truppe tedesche e guadagnandosi il rispetto e la protezione dei partigiani titini. Che dire, un medico Emergency ante litteram!
Per la guerra, il ministero della Difesa Esercito gli riconoscerà le campagne di guerra per gli anni 1941,42,43. Il 12 novembre 1959 ricevette una Croce al merito di guerra (l’intestazione della lettera era “al Capitano medico Gadaleta Antonio”). Così come in una delibera del Consiglio Comunale di Molfetta del 23.03.1960 avente per oggetto il “riconoscimento al dr. Antonio Gadaleta del servizio prestato in reparti combattenti” si fa riferimento ad una valutazione di 2 anni, 4 mesi e 13 giorni di servizi prestati.
Di quella croce di guerra Antonio non andò mai fiero. Dalla guerra aveva incominciato a maturare una coscienza antimilitarista e la sua successiva militanza nel movimento federalista europeo portava esattamente questo segno: le guerre non risolvono le questioni, ma danno la certezza della perdita di migliaia di vite umane. In cuor suo aveva piena consapevolezza che ogni Gorizia è maledetta (2), canzone che nelle tante lunghe serate passate insieme, avremo certamente cantato.
Rientrò in Italia alla fine del 1943, impossibilitato a rientrare a Molfetta per lo sbarramento tedesco sulla linea gotica, si diresse in Liguria insieme ad un altro ufficiale medico veterinario, suo commilitone, il dott. Paoli, precisamente a Varese Ligure, città natale di quest’ultimo. Lì conobbe sua moglie Lilina, Italia Lavaggi, con la quale si sposò il 1giugno 1944. Poco dopo trovò un impiego in qualità di “medico chirurgo interino in attesa di concorso” a Carro, dove visse con Lilina. Nel marzo 1945 nacque il primogenito Stefano e il 12 aprile, solo tredici giorni prima della liberazione, ebbero la terribile notizia che un reparto nazista in ritirata uccideva il padre di Lilina, Angelo Lavaggi, a Borghetto D’Arroscia provincia di Imperia, dove svolgeva la funzione di segretario comunale. Struggenti le parole nelle memorie di sua moglie Giulia: “…il 25 aprile le campane suonavano, tutti erano allegri, io piangevo!” (3) Antonio lavorò a Carro fin dopo la liberazione, visse un periodo ad Alassio e all’inizio del 1946 rientrò a Molfetta con Lilina e nel 1947 anche con la madre e la nonna di quest’ultima, rispettivamente Giulia Jeanjean (memè) e Italia Cassinelli si trasferiscono a Molfetta.
Nel primo periodo postbellico Antonio aderì al Partito d’azione. A Molfetta la sede del partito si trovava in corso Dante e vi confluirono antifascisti di varia estrazione sociale nonché giovani ancora freschi di studio, cresciuti in ambienti famigliari, che ne avevano favorito le idee libertarie. Oltre ad Antonio ricordiamo Vincenzo Valente, Giovanni Minervini, Lorenzo Palumbo, Cosmo Andriani, e suo figlio Giuseppe, Raffaele e Antonio Nuovo, Stefano Gadaleta. Questo gruppo di giovani dette vita anche a una associazione giovanile intitolata a Graziano Fiore, figlio di Tommaso e vittima dell’eccidio di via Niccolò dall’Arca(4). Antonio condivise con alcuni amici, tra cui Emilio Lussu, le ultime vicende del Partito d’Azione prima della fusione con i socialisti nenniani del 1947.
Successivamente aderì al “Movimento Federalista Europeo” di Rossi e Spinelli, autori insieme a Colorni del manifesto di Ventotene, che avevano intravisto, già allora, il rischio che lo stato-nazione fosse foriero di un sovranismo autoritario. Forse per questo così criticato dall’attuale governo. Dopo aver partecipato nell’ottobre 1947, a Roma, al teatro Eliseo, alla prima manifestazione politica del “Movimento Federalista Europeo”, dal 1947 al 1954, Antonio fu un tenace animatore di quel movimento con l’aiuto di Peppino Minervini in qualità di segretario della sezione di Molfetta che divenne centro regionale del movimento e una delle più attive del Sud d’Italia.
Per 6 mesi, dal dicembre ’50 al maggio 1951 diresse il giornale “La voce di Molfetta”(5). Leggendo i pochi numeri del giornale si apprezza come un gruppo di intellettuali, fuori dall’ambito dei partiti, in quei anni mise in atto il tentativo di coniugare la critica dell’amministrazione pubblica molfettese con il dibattito teorico sulla questione meridionale o su un federalismo europeo ancora ai suoi primordi. Il gruppo consolidò i legami tra i collaboratori molfettesi, ma riuscì a mantenere relazioni anche a livello nazionale e regionale come quelle con Beppe Patrono. Sul sito dell’ANPI di Brindisi in un articolo in ricordo di Beppe Patrono si legge:

……“successivamente al partito d’azione…. Patrono mantiene sempre strettissimi rapporti con il gruppo di Molfetta:
Tommaso Fiore col figlio Vittore, Antonio Gadaleta, Vincenzo Calace, Gaetano Salvemini che conosce da tempo e frequenta la casa di Liliana e Giovanni Minervini ……”

Test
*Un gruppo di salveminiani pugliesi a Bari in occasione della commemorazione di Antonio De Viti De Marco.* *Il primo a sinistra è Antonio Gadaleta, accanto Vittorio Fiore, il più alto a destra Beppe Patrono, al centro Vincenzo Calace con alla sua destra Giovanni Minervini*

Negli anni ‘50 e ’60 Antonio si occupò di alcune grandi questioni come la nazionalizzazione della professione medica. Questione che all’interno dei medici stessi era contrastata da alcuni o ritenuta utopica da altri. Il dibattito assunse rilevanza nazionale e Gaetano Salvemini in un articolo sul “Ponte” del 1951 criticando l’inefficienza dell’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie (INAM) riprende le posizioni sostenute da un medico su “La Voce di Molfetta”. Quel medico era Antonio Gadaleta. Il dibattito fu cornice nei decenni successivi alla necessità di un servizio sanitario nazionale che fu istituito solo con la legge 883 del 1978. Profuse altrettanto impegno sul tema del controllo delle nascite: a preoccuparlo maggiormente erano le maternità indesiderate specie tra le donne più indigenti che non disponendo di denaro ricorrevano ad ostetriche poco scrupolose o alle cosiddette “mammane” finendo il più delle volte in ospedale per emoraggia.
Fece corsi sulla diffusione del metodo Ogino-Knaus prima e sull’applicazione del diaframma poi; collaborò per tanti anni con l’AIED (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica). La sua preparazione umanista oltre a quella medica lo portò ad occuparsi delle nuove forme di pedagogia e didattica nella scuola: fu lettore assiduo della rivista “L’educazione” di Freinet, i cui seguaci in Italia dettero vita all’esperienza del Movimento di Cooperazione Educativa (MCE). Così scrive la maestra Giuseppina Boccasile:

“il medico condotto di Molfetta, il dottor Antonio Gadaleta sposato con una francese, quando i suoi figli raggiunsero l’età della frequenza alla scuola elementare, non voleva iscriverli alla scuola pubblica perché la riteneva inadeguata ai tempi”… “visitò la scuola elementare Alessandro Manzoni diretta dal Professor Orazio Caputo che aveva attivato pratiche nuove nella didattica e si convinse ad iscrivere i suoi figli”(6) .

Antonio e Orazio Caputo collaborarono a lungo sulle tematiche pedagogiche coinvolgendo studenti, docenti e famiglie. Dettero vita anche ad un’esperienza di scautismo laico.
E sì! era questa l’esperienza(7) non comune di quell’uomo che mi trovavo di fronte in quella discussione del lontano 1974. Gli anni Settanta trascorrevano velocemente. Il rapporto con Antonio si fece più intenso e come sempre le relazioni profonde rendono più forte stima e affetto. Continuò ad essere il medico a cui rivolgersi per qualche problema. In quegli anni non c’è stato uomo, donna o coppia che lo conoscesse che non si sia rivolto a lui per una prescrizione della pillola o altri anticoncezionali: tutti ignari che per lui era una battaglia iniziata decenni prima. La sua poltrona sembrava fatta apposta per discussioni infinite sul marxismo, sulla psicologia, sulle circostanze politiche del momento, sulle nostre scelte e storie personali. Tutto sempre con qualche digressione sul dialetto molfettese. In una delle tante discussioni, una volta gli chiesi perché si era avvicinato alle organizzazioni extraparlamentari, mi rispose “non mi sono avvicinato a nessuna organizzazione, alla fine degli anni ’60 ho intuito che il mondo stava cambiando, almeno il mio, per orientarmi ho cercato di capire dove andavano i miei figli”. A lui sarà sembrata un’affermazione scontata, a me, in un’epoca di grandi conflitti generazionali, sembrò incredibile: il padre non si presentava solo come legge, limite, ma si ribaltava, si faceva sguardo, esperienza umana.
Qualche anno dopo, come tanti della mia generazione, lasciai Molfetta, ma ad ogni ritorno era immancabile l’incontro con Antonio nella casa di Pasquale e Colette dove ha vissuto gli ultimi anni. Lì incontravi vecchi amici con i quali il tempo e le diverse strade avevano affievolito i rapporti, lui era lì, non solo ad ascoltare ma a “farsi tavolo” attorno al quale ogni discussione si rendeva possibile.
Quando ripartivo ci mandavamo i libri di cui uno aveva parlato all’altro: conservo ancora i libretti monografici su filosofi, sociologi o pedagogisti dell’edizione Procaccini che mi spediva. Non abbiamo mai smesso discutere, con lui le parole erano pane per l’anima.
La peculiarità di Antonio era attraversare il suo tempo cogliendo le trasformazioni con sguardo disincantato, confidando nell’attitudine all’ascolto, al dialogo con qualunque uomo, animale o cosa come quando mi raccontò che in un viaggio in Slovenia in un bar ristoro, gruppi di persone cantavano canzoni italiane, un pappagallo intonò bandiera rossa, lui cantò insieme. Forse non li seguirono in molti.
Chiedersi quali siano stati i suoi riferimenti teorici non è così semplice. Giovanni Minervini nella sua presentazione afferma che Rousseau è uno degli ispiratori ideali di Antonio, io avrei detto Marx, ma forse non siamo lontani ambedue, se si concorda con Galvano della Volpe che “il concetto di libertà implicitamente contenuto nel pensiero marxiano è perfettamente integrabile con quello esplicitamente formulato da Rousseau perché la libertà economica e quella politica sono basi indispensabili per una società senza classi o egualitaria”(8).
Ricordare Antonio, oggi, vuole essere un tributo sincero e doveroso al padre, al medico, all’amico, nonché all’impegno e al contributo, purtroppo dimenticato, suo e di altri della sua generazione in questa città. Personalmente sento forte la mancanza di quel dialogo, di quell’esperienza umana includente, specie in questi tempi invadenti.

Note 1. Massimo Recalcati, introduzione alla collana eredi. Ed. Feltrinelli
2. Il riferimento è alla canzone popolare “O, Gorizia tu sei maledetta”raccolta da Cesare Bermani. La canzone nacque dalla frustrazione dei soldati italiani che pur conquistando Gorizia(1916),subirono la perdita di 21 000 commilitoni. La canzone fu considerata disfattista e di stampo anti-bellico dai vertici militari italiani che decretarono di passare per le armi chiunque fosse stato sorpreso a cantarla. Fu vietata per tutto il ventennio fascista. Ancora nel 1964 suscitò forti polemiche dopo una pubblica interpretazione di Giovanna Marini.
3. Trascrizione delle memorie di nonna Giulia o”memè” dattiloscritto di Emilio Gadaleta
4. Eccidio di via Niccolò dall’Arcaa Bari (28 luglio 1943) fu compiuto da un reparto del Regio Esercito, Reali Carabinieri e da militanti fascisti contro una manifestazione pacifica di studenti.
5. I numeri di la “voce di Molfetta” sono depositati presso l’archivio Gino Bianco di Bari
6. Giuseppina Boccasile: Settant’anni in viaggio, per una scuola orizzontale accogliente, Wip edizioni, pag. 22
7. Le notizie su Antonio Gadaleta sono frutto dei suoi racconti, del contributo della figlia Colette basato su documenti e storia famigliare, nonché dell’appassionata presentazione “un pazzo malinconico” a Molfetta: Antonio Gadaleta, di Giovanni Minervini, dattiloscritto donato ad Antonio in occasione della sua pensione.
8. Galvano Della Volpe: Rousseau e Marx, Ed. Riuniti 1974

Pubblicato sul periodico “Quindici-Molfetta” del 15 settembre 2025